Fonte : Intervista alla Repubblica del
14 febbraio 2003
Un nuovo terribile caso: colpito l'ex
capitano dell'Avellino
"Giocavo con Tardelli, adesso sono in sedia a rotelle"
Il dramma di Lombardi "Anche io come Signorini"
Ancora il morbo di Gehrig: "Ho bisogno di aiuto"
dal nostro inviato EMANUELA AUDISIO
MERCOGLIANO - "Ho giocato
con Tardelli e Vierchowod, ma adesso non ce la faccio nemmeno a
grattarmi la testa. Lo devo chiedere alle mie bambine. Ho fatto i
corsi di allenatore con Lippi e Scoglio, ma ora non riesco più a
girarmi nel letto. Lo devo chiedere a mia moglie. Ho giocato 500
partite di campionato, quasi tutte con la fascia da capitano, ora
non posso giocare più a niente, nemmeno a vivere. Sono un altro
calciatore condannato dal morbo di Gehrig, come Signorini, morto
l'anno scorso a 42 anni, come Minghelli, che ha 30 anni e come me
è sulla sedia a rotelle".
Adriano Lombardi muove ancora un po' le mani. Ma solo un po'.
"L'ultima volta che ho preso in braccio mia figlia, mi è
caduta, è stato mesi fa. Non riesco più a stringere nulla,
questa malattia si mangia i muscoli. Mi sono accorto che qualcosa
non andava quando non ho più avuto la forza di farmi la barba.
Ma tutto è cominciato due anni fa, con dei crampi pazzeschi in
tutto il corpo, mi facevano male anche le costole. Così sono
andato al neurologico di Napoli, dove mi hanno tenuto in ballo
per dieci mesi, senza dirmi niente. Poi ho visto il povero
Signorini in tv, e quella sera andando a letto ho pensato:
anch'io ho quella cosa lì. Ho chiamato a casa sua, ho parlato
con la moglie, mi ha detto che Gianluca era sempre stanco, che
non parlava, che non deglutiva, che la malattia si poteva
diagnosticare, c'era un esame da fare. Sono andato dal professor
Silani, mi ha messo aghi ovunque, potenziali evocati, così si
chiama l'esame. In tre giorni ho avuto la risposta: morbo di
Gehrig, Sla, sclerosi laterale amiotrofica. Ma non l'ho detto a
nessuno. Sono uscito dall'ospedale di Milano e appena sono salito
in treno mi hanno chiamato per offrirmi la panchina del
Campobasso. Sul momento ho pensato: perché no? Poi mi sono
detto: ma dove vado? Cammino a fatica, non riesco a vestirmi.
Così ho trovato una scusa".
Lei ha smesso di giocare nell'83. Quasi vent'anni fa.
"Sì a 38 anni, dopo 18 campionati, l'ultimo a Como, ho
fatto anche una stagione in Svizzera, un ambiente tranquillo,
pagano bene, ma non è calcio. E poi sono razzisti, se non
parlavi in tedesco i giornalisti non ti stavano a sentire, anzi
per protesta abbandonavano la sala-stampa. Io ho cominciato
presto a giocare a calcio, sono nato a Ponsacco, in provincia di
Pisa, nel '45, facevo i sacrifici per andare ad allenarmi a
Pontedera, 60 chilometri tra bici e corriera, a 19 anni arrivai
nel settore giovanile della Fiorentina, niente prima squadra,
c'era Chiappella come allenatore e in campo gente più brava di
me, Chiarugi, De Sisti, Merlo. Così cominciai a girare l'Italia:
a Cesena in C, a Empoli, a Lecco, a Como, a Rovereto, a Piacenza,
a Perugia, ad Avellino giocavo con Roggi, con Montesi, che sul
calcio diceva delle cose terribili ma vere, e che in campo dava
l'anima, con Galasso che era di Lotta Continua. Come allenatori
ho avuto Bersellini, Marchioro, Marchesi. In serie A ho segnato
tre gol, a Tancredi, Piotti e Bordon. Ero soprattutto un
organizzatore di gioco. Ma sono diventato famoso perché nella
partita Milan-Avellino, nel 1978, avevo dimenticato i documenti,
e l'arbitro Mattei fu inflessibile. Disse che non mi conosceva e
mi fece accomodare in tribuna. Il giorno dopo alcuni giornali
riportarono le foto di tutte le volte in cui Mattei mi aveva
arbitrato".
Ha avuto incidenti seri in carriera?
"No. Nessuna operazione. Ginocchia a posto. Ho avuto
fratture alle caviglie, ho portato il gesso. Ho preso molti
antidolorifici e antinfiammatori, allora si usava il Voltaren, mi
hanno fatto flebo, questo sì, ma non solo a me. Dicevano che
erano acqua e zucchero, mi sono fidato, cosa ci fosse dentro non
so. Non ho sospetti, non ho dati che mi dicano che questa
malattia è professionale. Ma il mondo del calcio è l'unico che
conosco, m'imbarazza chiedere, non voglio privilegi, ma se devo,
preferisco rivolgermi ad un ambiente che conosco e che è stato
la mia vita".
Per le cure si è rivolto anche all'estero?
"Sì a Pittsburgh, mi hanno detto che potevano solo
confermare la diagnosi. Prendo il Rilutek che dovrebbe ritardare
l'effetto degenerativo. E' una malattia subdola, perché quando
ti manda avvisi è troppo tardi. Da giugno ad oggi mi ha
ammazzato, non riesco a piegare la mano destra, non riesco a
chiudere la sinistra. I muscoli diventano insofferenti, hanno
contorsioni, si muovono da soli, il termine è fascicolazione. Mi
sono anche rivolto alla dottoressa Letizia Mazzini a Torino, che
sperimenta il trapianto di cellule staminali. Però in questo
momento tutto è sospeso. Dico la verità, io sono pronto a fare
qualsiasi cosa mi propongano. Tre mesi fa ho guidato l'auto fino
in Calabria, è stato il mio ultimo atto di indipendenza. Da
allora non esco più di casa, sono prigioniero della malattia,
della carrozzella, di un'abitazione che devo modificare perché
ormai non riesco più a muovermi. L'ultima volta che ho provato
ad entrare nella vasca da bagno da solo mi sono rotto una
costola. Luciana, mia moglie, è convinta che certe analisi fatte
sei anni dopo aver smesso di giocare, evidenziavano qualcosa che
non andava".
Come ha dato la notizia ai suoi figli?
"Ai tre più grandi, a Filippo e ad Andrea che sono gemelli
e hanno 31 anni, a Paola che ne ha 29, ho detto le cose
chiaramente. Sono figli della mia prima moglie, morta a 42 anni
di un tumore che dal seno era arrivato al cervello. Anche se non
stavamo più insieme, sono andato ad assisterla, perché lei me
lo aveva chiesto. E non dimenticherò mai, quando ormai non
riusciva più a respirare, i suoi occhi dilatati, che quasi
uscivano fuori dallo sforzo. Ho paura, so che mi aspetta la
stessa fine, pensavo di essere uno che ha forza e coraggio, che
riesce a tenere la testa insieme, invece non va così. Hanno
paura anche loro, i miei ragazzi, che hanno già perso la
mamma".
Lei ha anche due gemelle di quattro anni.
"Sì, Sara e Mara, che ho avuto da Luciana, la mia seconda
moglie, che ha 14 anni meno di me. Se chiedo aiuto, se ne ho
diritto, è soprattutto per loro, per non ridurle a fare le mie
schiave. Finora non ho mai dato notizia della mia malattia
perché non volevo essere un caso pietoso, ma adesso non ho più
tempo. Questa malattia ti mangia in fretta, come farò con il
computer quando non muoverò più le dita? Dove e con che cosa
passerò i miei giorni? Nella mia carriera ho guadagnato e non ho
buttato via i soldi, ma adesso ho bisogno di una gestione diversa
della mia vita, da solo non ce la faccio più".
E' un caso che il morbo di Gehrig stia attaccando i
calciatori? Si parla di 13 morti e di altri 32 affetti dalla
malattia?
"Vuole sapere se la causa è il doping? Non lo so. Io per
conto mio non mi sono mai dopato. Ho avuto un compagno che una
volta mi disse di aver preso una pasticca, visto che la partita
era molto importante, credo avesse preso una sostanza eccitante.
Io vengo da una famiglia di sport, mio padre giocava centravanti,
fu squalificato per cinque anni perché picchiò un arbitro che
gli aveva annullato un gol. Siamo gente di campo, piena di
difetti, ma non da doping. Le città che da allenatore ricordo
con più piacere sono Giarre, dove andavo sempre a pescare e
Trieste dove in certi bar i vecchi andavano a giocare a dama e a
parlare di letteratura. E io stavo lì ad ascoltare. Ma adesso
non ho più tempo".
Adriano Lombardi muore all'età di 62 anni il 30 Novembre 2007, dopo otto anni di
sofferenze e lotta contro questa grave malattia, che ha colpito e fatto vittime negli ultimi anni
di diversi calciatori degli anni '70 ed '80.
|